Tiziano Ogliari
OBERBLITZ:
nota all'opera visibile di Giampaolo Guerini


Studio dei valori e disvalori fonici dell'aggregazione delle parole.
Ogni aggregazione, inficiata o reale, pretende una assoluzione di significato in una sinuosità sonora: "io ti assolvo vil cosa". Il suono assolve.
"Eutocìa" è qualcosa di "vil cose assolte". La creazione in bianco di parole inesistenti, non codificate, non è il rifiuto di un'imposizione di linguaggio, ma l'estrazione di una realtà inapparente e irrefutabilmente vera la cui esposizione funziona come atto di dirompenza. Si deve ridurre la realtà al frazionamento di sé stessa in innumerevoli quantità sempre non presenti, ma purtuttavia, sempre chiamate e scritte. Lasciamo l'irreale alla nefandezza dei poeti, le sole baccanti che fagocitano la realtà, i soli che hanno doni di petulanza. Non si deve sonnecchiare sul metodo o sull'impossibilità teorica e, soprattutto, non bisogna mettere in relazione la politica con l'estetica, e tantomeno, le due precedenti con il reale.
Il politico è vissuto; il reale è trasporto, obliterato e ricostruito nella connessione etica sempre irreale; la parola è sempre increata, mai vissuta, geneticamente inesistente e per questo già morta ma usata, usata nella morte per costruir storia di parola e giustificarne la presenza immanente: la parola non è mai stata scoperta. I poeti falliscono in ogni scrittura, si annientano quando si determinano nella scrittura; il poeta, contrariamente a quanto le nuove tendenze affermano, non ha funzione; egli, attende alle tendenze; deve, anzi, dare alle parole infinite tendenze, dove la tendenza è un andare filosofale della parola verso un verso, una direzione, senza alcun fine: la direzione solo come grafia di moto, come parola che non è mai.
La poesia è disfunzione dell'uomo senza funzione che s'insinua nell'uomo funzionale per costringerlo allo iato, all'abbiezione politica dentro l'etica. Uso il termine poesia per comodità d'impiego, in quanto non ti parlo ormai più d'essa ma di un qualcosa di ulteriore. Non quindi l'instaurazione del vuoto bensì quella disgregante di un pieno coercibile o ampliabile, lateralizzabile o verticalizzabile in base al vissuto (politico).
Il politico, quindi, condiziona la forma della parola recepita, il condizionamento delle forme è iniziale e inevitabile, ma lo iato permane e agisce poi sul vissuto mettendo in forse e in seguito distruggendolo, ristrutturandolo in quella che ho chiamato abiezione politica, cioè stato di intransitività dal politico all'etico. Questa "vilcosa", falsamente "il poeta", vive non la parola, ma una simbiosi di parola con uno stadio di più parole Altre: la parola non è mai vissuta. L'estetica è intrascurabile essendo il modo di trasformabilità formale dello iato, essa non è della creazione, è, e il poeta ne subisce l'inganno, del colui che viene a contatto con la creazione: quindi il poeta è esteta solo dopo la creazione e necessariamente lo è lavorando su uno iato autogenerato per conseguenza. L'arma di stato è la finzione estetica trasferita nell'etica, mezzo di costruzione di una parola statalizzata, una, sola parola possibile: carcere poetico, poesia.
Questa filastrocca è un intrattenimento allegro, magari inopinato, di più persone, probabilmente un'effusione di demenza; ecco, soffermiamoci sulla demenza: "Rigueur di demenza". Risignifichiamo la demenza?
Questo breve studio è inequivocabile, solo il suo valore etico condurrà all'incerto.

La pagina che non c'è.
[da: Liriche semplici]
A volte una negazione può essere più affermativa di un'affermazione, può essere proprio il "più" che decide l'affermarsi, quel minimo e noto "oltre" che già prosegue. A volte può essere questo stesso "poter essere", nella forma del non ancora dato che sta per darsi, poiché comunque gli si estende un'apertura. Più essere, a volte, questa stessa volta, che è questa e non un'altra, non è una non volta, se l'altro non è lo stesso. È lo stesso, infine e al fondo, se l'essere è la mancanza di ogni distrazione.
Negare è il modo di dire del nostro linguaggio, ciò per cui esso si distingue da quel che vuol dire. Il linguaggio nega sempre qualcosa che comunque rimane, e rimane esso stesso da ciò che vuol dire, come da un'estrema confidenza inconfessabile.
Poter negare è il poter dire, senza alcun potere. L'ultima difesa delle cose e così il loro riparo, il loro intimo. L'ironia della sorte.

Vista su Oberblitz (paesaggio da una finestra di casa Guerini).
A Oberblitz, sul Tagliamento, si può dire esista una pieve romanica il cui transetto, disassato rispetto al corpo della chiesa, formi un'abside lunga, coronata dalle consuete creature fantastiche che aggettano e sono ormai nate e incarnate.
Lì per lì, si può anche dire che nei paesaggi di Cézanne, nei versi di Dante, Pascoli, nelle viste di Scardanelli e Giorgione, quel che noi ora vediamo da fuori quadro sia lo stesso visto "allora" da dentro: una pagina, o un quadro, è un collo d'imbuto in cui qualcosa, che sta lì, condiverge, ci porta dentro ricollocandoci fuori, in una disattesa, perpetua passione d'attesa.
Si può anche dire che invece, e prender dei punti di sospensione (come gli Stoici, come Descartes, come Husserl, come il Basket, come la chimica elementare).
Si può dire di tutto. Pellegrinare a Oberblitz. Guadare il Tagliamento. Ma c'è una sconvenienza, un taglio che ci rinfaccia che il tutto non è abbastanza, non è sufficiente.
Mi pare che un decorso, ragionevolmente semplice, dell'opera (questa parola svestiamola e rivestiamola come un'indossatrice che è tanto corpo per gli abiti da essere un abito senza corpo), porti alla sua perdizione recuperabile, al "noi che ci perdiamo nel tutto insufficiente, e in tanto lo facciamo insufficiente in quanto recuperiamo il punto di partenza" di perdizione. Faccio un esempio: entriamo in un bosco per una camminata e ci troviamo persi. Il nostro primo riferimento, nella ricerca di una via d'uscita, sarà quel "dove" noi ci rendiamo conto di esserci perduti. Il punto che ci trova persi è quello cui riferire il nostro ritrovarci; ci riferiamo al punto in cui mancano i riferimenti.
Ci troviamo in uno spazio, in un tempo irriferibile, nonostante Prigogine e il capitano Kirk.
Per riferirci pensiamo "allora" che i mostri della pieve di Oberblitz sono anche in San Michele a Pavia, in Bosch, in Spielberg e Lynch, e in quasi tutti i cartoni animati giapponesi; oggetti nautilus che sembrano innalzarsi nell'etereo concettuale in realtà, o invece, s'immergono nella nebulosa agitata del "ciò che sta per essere chiamato", del prenominale, di "quel che" Platone chiamava . Fateci caso: quando entriamo in contatto con qualcosa, prima di dirne il nome (anche solo pensandolo, anche senza esserne convinti), abbiamo un rapporto di confusa materialità con questa cosa. È una situazione che possiamo ben determinare quando usciamo dalla familiarità degli oggetti e cerchiamo il nome per un oggetto inusuale, il cui "come si chiama" non viene alla mente. Ci troviamo ad aver a che fare con la prenominalità che trattiene gli oggetti estraniandoceli, in una lieve, disponibile riluttanza. Allora diciamo che di lamiera fessa son fatte tutte le automobili, di tela anche gli abiti e il bianco è disponibile*: dalle acque sembra emergere un periscopio.
Ma non basta. Anche pensando alla comunanza, alla riferibilità estrema o più che infinita di un oggetto chiamato in causa nell'opera, di ogni parola implicata nel discorso, non vi è sufficienza. Si sente che il voler dire vuol essere da meno di quel che dice: vuol essere nemmeno minimale, ma aperto, perciò già sufficiente, per aprire un discorso.
Dopo aver indossato e indoxato, abitato e abitato, un'opera è un posto nel quale tutto ciò che conta vi succede al di fuori, se lo si guarda da lì dentro.
*Lamiera, tela, bianco: si riferisce ad "oggetti" utilizzati in alcune opere. - N.d.R.-

Caro Giampaolo,
la tua esecuzione di "E"* (mi ha portato alla mente queste locuzioni: "cerco sempre di uscire la sera, ma papà vuole che rientri subito e così non sono mai sola", "l'infinito eccovelo, ma non crediate che abbia il tempo di aspettare che si esaurisca") meritava un luogo migliore, magari prima di un'opera lirica, per premessa e per nostalgia, prima, anche, e anziché capire tutto subito. Lì invece s'erano "Conan il barbaro", I "Mammutones" e c'era quell'aria da "o poesia o morte" che mi debilita e un po' stordisce (non è l'aria dei passi alpini e degli abbrivi marini).
Nel Dizionario Filosofico di Abbagnano, alla voce "sincategorematico", ho ritrovato in una citazione, un pensiero di Guglielmo di Ockham che dice dell'infinito che per quanto di esso si possa predicare, e forse proprio in misura di questo, "finisce" sempre per essere finito. Certo non è questo il luogo per trattare un tale argomento, ma un'impressione mi sento di comunicartela seppur brevemente: mi pare che l'infinito appaia (forse solo a volte, o tuttalpiù il più delle volte, non voglio assolutizzare) in maniera interstiziale, come una repentina apparizione non accorgibile, di sfuggita, senza, di per sé, aver di sé stesso una convinzione valida e ferma quanto al proprio sé. L'infinito si trascura. Se Heidegger intende la "cura" come il più proprio modo di stare insieme ambientale dell'uomo, che nel suo ambientarsi all'ambiente compie l'ambientamento dell'ambiente a sé, possiamo dire che l'infinito traversa questo ambiente sbucandolo, come un estraneo comparente qua e là. Più che estraneo lo direi non a noi comune, non adatto e adatto al nostro stare insieme, barbaro.
L'interstizialità dell'infinito, mi pare paradigmatica di una medesima interstizialità dell'arte. Dico paradigmatica perché, seppur siano molte le analogie, non voglio instaurare un'analogia assoluta tra arte e infinito, a maggior ragione considerando quanto difficile sia difendere l'autonomia e la differenza dell'analogia dall'"identità", con la quale viene, purtroppo, quasi sempre confusa. L'infinito è l'infinito, l'arte è l'arte. Entrambi mi paiono interstiziali e "trascurati". L'arte, di per sé e in quanto a sé, si trascura, si dà una volta per sempre trascurandosi in infinito, appunto come l'infinito che trapassa il trapasso di sé stesso, appunto come l'arte.
Detto ciò, mi è forse più chiaro il motivo della mia insofferenza verso gli ambienti che pretendono di ambientare a sé tutto, chiamando a sé il più possibile, in egida ad una ovunque riscontrabile "teorica dello shopping".
Il non stare in vetrina, davanti a una telecamera o a un campo di visione che determini una visibilità accorgibile; la non disponibilità a farsi riprendere che è poi, di fatto, la "non disponibilità", è ciò che "delimita" l'interstizialità: dell'arte e dell'infinito, ma anche del poter gustare un Coprinus Comatus appena saltato nel burro, di avere l'accordo sottile semicromo dell'intesa.
Per accorgersi di questo darsi interstiziale bisogna prestare attenzione, consapevolezza e forse una certa astuta attesa (anche nel senso di "prender cura"). L'interstiziale è confuso e confondente e credo che, per intelligere è la scusa, questo mundus di vetrinisti abbia bisogno di luci ben puntate che indichino "che questo che vedi è proprio questo". Ma anche così, con estremo atto di fede io dico: "Non si sa mai".
*Milano Poesia 1991: per pianoforte ("Una misura col mi centrale è scritta sul dorso di dieci libri e su ogni pagina degli stessi. Suonarla, togliere la pagina e posarla sulla cordiera. Così pure con ogni libro dopo che è stata eseguita ogni pagina".). - N.d.R.-

Dispensa dal guardare.
Se confidiamo nell'eternità dell'arte, non possiamo che trovarsi ogni volta, a perdita d'occhio, spaesati di fronte alla sua fitta, praticamente inestricabile necessità di stare con il più effimero e labile; di convenire, magari passando inosservata o tutelandosi in una segreta, con tutto il suo "al di fuori".
Io davvero non so se per comprendere un'opera sia necessario guardarla e se comprenderla sia il miglior modo di stare con essa.
Certo il fatto stesso di non sapere, è un risultato sufficiente. In fondo l'arte è così breve: impieghiamo anni a vivere, e solo qualche attimo ci diamo a un quadro con cui non in tutti quegli anni avremmo potuto imparare a stare, in esso farci capaci d'entrare. Nei quadri non c'è entrata, se ne è sempre "al di fuori"; forse, se guardiamo bene, ne siamo gli autori. Sono nostri anche i fregi in cotto, i fari e il "vietato fumare"*; è nostra anche l'idea, non importa quale, di sorprenderci a guardare.
Guardando, ci dispensiamo da un fatto ulteriore che non sta più in noi ma fuori, a sua volta, e che rincorriamo appena ma poi lasciamo; è una piccola burla del tempo, una giocata dello spazio, che non sapendo dove stare ci induce a guardare. Non importa raggiungere, vincere la giocata; possiamo anche ceder le armi, del senso e dell'intelletto, del "tutto in noi umano". Il bello è che all'arte ci si può anche arrendere senza mai esser fatti prigionieri.
Ma, se proprio all'autonomia dell'arte non riusciamo a rinunciare (così come io non riesco ad affrancarmi da queste cadenza in "are"); se con lo sguardo-guado cerchiamo di far largo e indagare per carpire almeno un motivo, il moto che ha spinto l'impulso primitivo; se non ci basta che ogni quadro abbia il mondo come stessa cornice; possiamo consumar sempre un'attesa, una minuta stima, che qualcosa accada, nel poi o prima.
*Fregi in cotto, fari, "vietato fumare": riferimenti al luogo d'esposizione delle opere. - N.d.R.-

A Oberblit.
Credevo d'aver fatto i conti con la realtà, invece è solo una breve lontananza che mi fa supporre d'aver capito, in tanti e vari modi, in qualche mondo e per quale rendiconto mi tocca essere. E la stessa leggerezza di questo esser toccati, che ci apre una sorte sempre mai conosciuta, ribadisce la lontananza: è un movimento che ci viene incontro da un posto in cui non siamo, per confermarci che adesso, in questo altro posto, noi siamo "qui". La realtà, del resto, è la perdita implicita che ci riguarda, e che si mette da parte, ogni volta che parliamo, guardiamo, tocchiamo e magari anche se solo pensiamo, visto che il pensiero è l'istinto dell'uomo.
Pensare in un quadro, è un'operazione di nostalgia ardita e così anche una conquista involontaria.
Ricordo d'aver passato qualche mattinata alla Galleria dell'Accademia di Venezia, davanti alla Tempesta di Giorgione, cercando di diventarla. Non: capire, interpretare; ma proprio diventare.
Ci si rammarica alla fine di non essere quanto di più si potrebbe, ma si avverte il sollievo di esser perlomeno riusciti a essere quel quanto basta che diventa, per pacificarci, il più possibile. Rimanevo lì davanti al quadro davvero senza pensiero, come toccato dallo smarrimento ma anche da una precisa pur se non del tutto comprensibile equidistanza, che mi faceva rimanere quel che ero, e il fatto di rimanere, di conquistare solo del tempo, mi convinceva che seppur profuga della realtà, nel quadro qualcosa mi era ospite.
Quel che potrebbe essere alla fine di un quadro, poco sopra o poco sotto la sua linea di galleggiamento, non dimostra il quadro: del resto il quadro si dimostra bastando a sé stesso. Ma basterebbe a sé stesso non vale, è un gioco fuori della norma. Il quadro è un gioco che non vale; basta e bada a sé stesso mettendoci fuori, da parte. Da parte noi, da parte la realtà: forse qui un conto potrebbe anche tornare, un cortese equilibrio ci invita sulla fune.
A Oberblitz passo ogni tanto in treno, che lì non ferma (è una piccola stazione); per vedere mi tocca inquadrare tutto dal finestrino. L'ultima volta, chissà se lo sarà davvero, guardando fuori (dalla finestra) m'è parso di non veder nulla: forse ho pensato di non veder nulla, in realtà non avevo un pensiero (come a Venezia). Pensare non è avere un pensiero: anche se non si ha nulla succede di pensare, semplicemente si è nullapensanti (se si dicesse che si pensa il nulla si darebbe al pensare un pensiero). Non è obnubilamento, sorpresa o stupore, è un semplice nitore che ci concede di avere un segreto.
A Oberblitz, come a Venezia, come in qualsiasi altro mondo, non si ha mai tempo di pensare un pensiero che non c'è; ma in un quadro possiamo confidarci il segreto, che non tace mai, di non vedere, e sostenerne comunque il pensiero.

Oberblitz, agosto...*
È possibile che il nulla sia la virtualità di tutto e che da un quadro il suo "conpositore", virtualmente morto, ci manifesti la sua indecidibilità della nostra collocazione: se noi si sia futuri o passati, rispetto al quadro, o se, lì presenti, ci si senta nella costrizione di renderci un presente per consentire all'ottica della percezione. È possibile, ma "non si può mai sapere". Nei quadri a volte s'inquadra, ed è già un paradosso, quella che definirei "metodica della scansione esterna". C'è un movimento, immoto come quelli di Zenone d'Elea, che ci conduce fuori quadro o che ci indica come esso sia un luogo in cui noi, senza scalpiccii e passi felpati, passiamo, come il fuori dentro. Lo schiarire dei tetti e l'allargare delle acque verso la destra dell'immagine nella Veduta di Delft di Vermeer ci portano fuori da quel lato, come da un estuario.
Il quadro è un ricorso semplice all'estricabile varietà del mondo ma prima di tutto è una veglia patita sulla sua ineludibile presenza: sentirvisi dislocati significa certo appartenere al mondo, ma come una sua oltranza. Come, nelle parabole di Zenone, a dimostrare l'immobilità è il movimento, l'unicità è il molteplice e la tartaruga non sarà mai raggiunta da Achille piè-veloce, noi non riposeremo mai in un quadro.
Il mondo a cui ci apprestiamo ci darà viste su una virtualità (rimane poi da vedere se già il concetto di "mondo" non sia "in realtà" il prototipo virtuale), su una sorta di incarnazione iconica degli algoritmi. Uno dei caratteri fondamentali di questa virtualità sarà quello di "costruire il presente", di recuperarlo, attraverso un atto di cosciente emendazione, da quell'alea in cui continuamente trapassa, da Agostino a Gadamer. Il presente ci si consegnerà nella forma di una realtà finalmente prevedibile e richiedibile, potremo scegliere e disporne come di un canale televisivo. Saremo ancor più i suoi questurini ma ci assolveremo, in questa virtuale redenzione, da ogni colpa, in quanto a noi il presente si consegnerà costituendosi, come per riparare a una "sua" colpa.
Nelle Vedute di Oberblitz vi è un'apertura, un passaggio che conferma il quadro come posto in cui e da cui bisogna passare; vi è tutta la formale presenza del passare "da lì" di tutto, che apre il passaggio-paesaggio: ma tutto è al di fuori delle nostre aspettative. Se tutto il mondo che contorna il quadro è, nel proprio aspetto, quanto ci aspettiamo, tutto questo stesso mondo, che conviene nel quadro come suo al di fuori, è quanto non ci saremmo mai attesi: un'inaspettata presenza.
Ora, detto questo, e detto che ogni quadro, anche suo malgrado, è una "veduta", va detto che ogni veduta, per forza, è un quadro, una coazione al presente. La fretta del passare deve conquistarsi uno spazio, un posto, per rimanere. Nel quadro rimane presente lo spazio del passaggio, dell'irrefrenabile. Il presente, nel quadro (ma anche in qualche altro luogo) è una misura di uno spazio provenuta e destinata dall'aver e al dar tempo. Non si tratta della solita diatriba spaziotemporale o dell'ambivalere che li placa, spazio e tempo divergono: lasciandosi portano a sé, "a grappolo", quanto è consentito: un violino e un tripode (il Taviolino**), la Montagne de Sainte-Victorie, questo e quell'altro. La "convenienza" di questo e quello (Gombrich dice l'"essere a posto") è ciò che poi, pur nella banalità della procedura e dell'espediente, determina l'eccezionalità dell'arte. Un altro ossimoro per le fatiche di Zenone.
Una Veduta di Oberblitz è un acceleratore di particelle e il rostro dell'esistenza; non meno rigorosa di un'equazione, più patita di un'equazione. Nella schiacciante e quadrata presenza del suo presente ci si sente "costituiti". Non vi è scelta che passando da un lettore d'impulsi cambi la nostra visuale: questo indica non che l'arte esprima una virtualità diversa da quella della scienza, ma che è della virtualità il "diritto al rovesciamento del guanto" che la adatti all'habitat di permanenza e di evenienza, cosiccome la tartaruga, superata da Achille in velocità, arriverà pursempre prima di lui. Noi, nonostante tutto, non riusciamo a comprendere che tutto ciò che non esiste assiste la nostra esistenza cosiccome, nella nostra esistenza, noi assistiamo a tutto quanto non esiste.
*Ho scritto questa breve nota all'opera visibile di Giampaolo Guerini nella sala per colazione della pensione Ninpha di Oberbltiz. La signora Tina Nieder- Pimento, la proprietaria, mi ha servito sempre colazioni molto abbondanti e ben cucinate, il tempo fuori è sempre stato minaccioso; scrivere è stato senz'altro il modo migliore di conciliare il tempo.
**Un piccolo tavolo costituito da un sostegno metallico sormontato da un violino capovolto (in Lo stato del dove, p. 41) - N.d.R.-

Oberblitz, novembre...
"Un espediente per non sfuggire al proprio
destino di scrittore è un espediente
per sfuggire a ciò che è scritto".
Stamane, la signora Tina (mi ha svelato un segreto: il suo vero nome è Mattina; furono gli amici, nell'adolescenza, a chiamarla Tina, poiché le sue sembianze iniziarono allora a cambiare da quelle di piccola matta bambina a quelle di "femmina del tino", "dove fermenta il vino", per via di una certa, del resto felice, fisica opulenza) ha iniziato un umido con funghi delle Alpi: Canterellus cibarius, Canterellus lutescens, Boletus pinicola, Lacterius deliciosus.
Non vi è nulla come i profumi della cucina e la chiacchiera lontana della televisione che mi ricordi certi momenti in cui, da veramente piccolo, iniziavo a voler scrivere poemetti. I miei modelli erano Omero e Pascoli, il mio principale desiderio capire perché mai un "verso", che pure si chiamava "verso", non portasse in realtà in un luogo ma in un punto da cui si parte, per sempre; perché, se non si distoglieva lo sguardo, ci si ritrovava smarriti o quanto meno disancorati: nulla a che vedere con i riferimenti precisi della realtà, nulla a che vedere nemmeno con l'evasione, anzi, più stavo su un verso più sentivo oscurarsi l'aria e chiudersi ogni via d'uscita. Pensavo che, senza dubbio, un verso, una poesia e poi l'arte in generale fossero lì a presentare, con un artifizio anche malevolo, l'inconfessabile.
C'è qualcosa, al di sotto del normale, normotetico galleggiamento dei significati delle cose, che non smette mai di agire; qualcosa che continua e per il fatto di questo suo continuare, che sembra inarginato e inarginabile, crea uno svuoto che ci attrae e collimandoci ci trascina, ma anche ci chiude. Non ho mai fatto bagni al fiume o al canale proprio perché il continuare dell'acqua sotto i ponti mi dava già, da fuori, il senso del qualcosa che da sotto agisce perenne e che si poteva saper meglio da lì che non dal gorgo. Temevo anche per la mia vita, certo, e avevo la certezza d'aver scelto bene, nella mia posizione d'osservatore, poiché mentre tutto correva inarginato e inarginabile, la mia immagine e tutto quanto riflesso (ranuncoli, pioppi, rovi di more e canne) rimaneva: l'inconfessabile rimaneva, inconfessato. Solo ora confesso, ad altri da me ma a me stesso per coincidenza sulla via, perché io capito lì puntuale, sono un incontro inevitabile della confessione, anche se si confessa sempre ad altri.
Ho l'impressione che Tina si sia accorta solo poco fa, mentre mi svelava il suo segreto, di chiamarsi Mattina. Lo sapevano in realtà tutti: i parenti, gli amici dell'infanzia, qualche amante, e poi è scritto nei documenti. Si sa, un segreto è quanto di più conosciuto si possa immaginare, ma è il confessarlo che lo fa essere segreto; nel confessare è come se qualcosa uscendo ritornasse a sé, come se la dispersione fosse un ritrovarsi.
A questo punto o a quel punto, dopo la confessione, si potrebbe tranquillamente pensare che l'inganno finisca, che tutto sia chiaro: invece nessuno chiama più Tina "Mattina", per nessun motivo, né per il vino della Valle, né mentre, suppongo, goda delle sue grazie.

Oberblitz (?).
Un tempo, l'uomo, del resto realizzato in sé da quest'incarico e per questo compito, metteva a repentaglio la propria vita per consegnare un messaggio: non sempre vi riusciva; spesso un'interferenza - un'imboscata, un malanno, o, nel migliore dei casi, una distrazione sentimentale - impediva la "corrispondenza". La "medicalità" del corrispondere, come la topicità del farmaco, da quel tempo è un metodo di apertura sul nulla: quel che corrisponde chiude, quel che non corrisponde apre o lascia aperto; quel che si lascia, in quest'aperto, è qualcosa che, per quell'incorrispondere, non dice nulla: è un nulla, quello su cui, come dice Wittgenstein, siccome non si può dire bisogna tacere.
Oggi che abbiamo, nella tecnologia elettronica, redento l'imprevenuto e imprevedibile e impregiudicati i nostri messaggi, ci resta solo, come sempre, la più naturale delle incorrispondenze, quella del linguaggio con la realtà, che è anche - forse soprattutto - la nostra più naturale corrispondenza con il nulla. Il linguaggio che "corrisponde" al nulla (come ancor più l'arte che è un "a fortioni" del linguaggio, la sua iperazione e dunque la sua più grande debolezza) ha come destino l'irriconoscibilità; prove ed esempi ne sono le interpretazioni, le ermeneutiche, le stime e le attribuzioni ma soprattutto la necessità di un autore, di una firma a cui legare, a cui, infine, far corrispondere.
Non ho certezza che senza linguaggio non esisterebbe mondo, ma son certo che senza linguaggio non esisterebbe il nulla. Ogni volta, nel sempre in cui abbiamo a che fare con il linguaggio, siamo in esso strettamente tenuti alla riconoscenza verso l'irriconoscibile; ogni volta che ci intratteniamo con l'arte, proprio perché forse si danno dei mondi anche senza linguaggio, riconosciamo al linguaggio l'indispensabilità del nulla.

Caro Giampaolo,
l'affresco di Vasari-Zuccari nella cupola di Brunelleschi, scoperto ieri dopo i restauri, per televisione mi è sembrato il barattolino Sammontana in cui un mio collega, ormai coperto di fama, si tuffa slinguettando: il canone estetico di Vasari- Zuccari come quello di Luca Matteo Ferrari a venti centimetri da un gelato preconfezionato! È una sedizione teorica; ma aperta dalla seduzione della teoria. La stessa che spinge Socrate incontro ai suoi interlocutori; la finitezza mai definitiva del domandare; il volano della metafisica - lo stesso usato da Heidegger.
Perché dialogare con Socrate se poi alla fine, addirittura pensando di definire il "mai definitivo" con la cicuta, avrà sempre ragione lui? Perché non assegnare agli eredi Vasari-Zuccari una quota degli utili Sammontana e al Sig. Ferrari uno spazio alla Biennale di Venezia?
L'evidenza del dato ci lascia l'evidente dato di una estrema libertà. Se il dato, per esser tale, deve essere nel suo darsi e questo darsi, in quanto muoversi da un trattenimento, è un venire all'evidenza, non vi può essere dato senza evidenza e così, l'evidenza del dato, è una tautologia, un senso talmente evidente da rimanere chiaro anche nella sua mancanza: la tautologia è l'aver senso della mancanza di un senso proprio per esser data nell'evidenza del suo darsi. Dunque "qualsiasi" dato in quanto evidente e quindi tautologico è un senso mancato dal senso; ma è pursempre qualcosa, come il nulla che si esistentiva nel linguaggio: del resto sta al linguaggio la reggenza delle cose.
Il punto è: "il linguaggio che cerca il modo come d'essere sostituito". Come può il già da sempre sostituentesi e sostituente essere sostituito? Se dico che Nieder-Pimento ha pescato stamane una trota da 1,7 kg (non so se dalla cupola di Vasari-Zuccari avvalendosi delle capacità in apnea di Luca Matteo o dove), apro una realtà sulla quale posso porre un quesito di verità (è vero/non è vero), ma che risponda in un modo o nell'altro non cambia e non chiude l'aperto dell'apertura; che sia vero o non vero è lo stesso (irrefutabilità del reale, impossibilità a sfuggirgli come ultraveggenza del linguaggio, a cui non si riesce a sottrarre le cose*). Se è vero; il linguaggio non è già da sempre in sé sostituito nel proliferare del suo stesso? Se non è vero: il linguaggio non è già da sempre in sé sostituito nel proliferare del suo stesso?
Eulalia Pimento (la figlia di Tina) mi ha confessato, al termine di una come al solito per me perdente discussione serale, che, a suo parere, l'uomo del XXI secolo sarà l'uomo dei Volani: finalmente! Dopo 2.500 anni di uomo dei Valori. (È assai graziosa e perspicace).
*Scusa la concitazione.

Alla base
della passione mistica (una base spontaneamente mai a sufficienza fondata), vi è lo sconforto della regola, che non esclude da quel che prefissa un resto di negazione e abnubilamento, ma da questo rimane, come una vicissitudine disperata, alla fine (che si spera coincisa con l'apertura dell'eterno) di un trascorso nel nulla e nella sua stessa imperitura negazione.
La felicità di chi è riuscito, nello scrivere un sonetto, a redimere nella regola il tumulto del resto escluso, è subito lo sconforto del render conto nel sé del linguaggio - quindi "a tutti" - del rimanere di questo resto, infine irredimibile*.
La regola è sempre un principio di ragione che non è mai una ragione sufficiente. È questa la sua grandezza. Ed è la stessa grandezza del linguaggio, solo con sé stesso, che non può dire tutto ma nel quale il segreto non tace mai.
Il guaio è che possiamo credere solo quel che già sappiamo; quel che non sappiamo lo possiamo pensare. Il pensiero, a volte, mi pare solo, di una solitudine non aderita, lontana da quella del linguaggio, lieve e prima o poi infranta come la galla della vita.
*Vedi L'infinito di Leopardi.

Caro Giampaolo,
in "tutto quello che non sappiamo lo possiamo pensare" (immaginiamo sia un profondo stagno fiorito di ninfee) possiamo pescare pesci dalle varie forme, a colori e, forse, anche nomi.
Il primo pesce: "I pesci si dice siano muti per antonomasia; ce lo diciamo noi umani, abituati a dire delle cose (non solo a noi)".
Il secondo pesce ci dice che il pensiero e il sapere non sono lo "stesso"; che può darsi un pensiero senza sapere e un sapere senza pensiero (di cui forse il primo pesce qualcosa sa) e che, mentre è reale che tutto quel che non sappiamo lo possiamo pensare, non altrettanto lo è che tutto quel che non pensiamo lo possiamo sapere; cioè, non sappiamo meno di quel che pensiamo, dunque il sapere non si dà tutto nel pensiero, mentre il reale sì. Sembra, insomma, che il sapere sia qualcosa che ci appartiene meno del pensiero, il quale ci corrisponde di più ma in cui ci sentiamo accasati; più comodo, paradossalmente, è per noi lo star nel sapere. Il sapere ci risolve mentre il pensiero ci dissolve, sembra a volte non saper nemmeno ritornare a sé stesso, riconoscersi per quel che poc'anzi è stato.
Il terzo pesce, proprio perché è il terzo, cita la terza terzina (del primo Canto del Paradiso*) e ci dice che esiste (senza essere) una profondità in cui non vi sono pesci da pescare: un fondo di pensiero senza sapere cui "dietro la memoria non può ire".
Al terzo mi fermo. Possiedo, ahimè, una grossa testa, ma un piccolo canestro da pesca.
*Perché appressando sé al suo disdire,/nostro intelletto si profonda tanto/che dietro la memoria non può ire. - N.d.R.-

Il linguaggio concede il reale a condizione della sua impossibilità.
(da: Repentaglio del metodo).
Penso spesso a quel che non riesco a scrivere, a dire, a vivere. Non è la stessa cosa. Quel che non si riesce a scrivere è ben di più. Vi è un immane "Onniverso" che non si lascia e non s'è mai lasciato persuadere da alcuna parola e che, discosto, son certo persuada quelle stesse parole cui si è sottratto, che alla fine, senza saperlo, parlano di lui. Ci è fatto così un grande dono, talmente grande da venir in genere, e per la più grande delle vanità umane, confuso per una nostra speciale capacità; ed invece di varcare confini, torniamo al focolare mansueti, come dopo un ultimo sacrificio, nel tepore della parola. Ciò che differenzia l'uomo è il non accettare di essere quel qualcosa che si dice essere, quindi non accettare di essere quell'essere per cui vale ogni differenza. Noi vorremmo estenderci, in avvicinamento continuo, sino alla immedesimazione, alla stesseità, all'assoluta identità, sino e poi sopra al tutto che ci si fa incontro, per poter essere quello stesso che pervade il mondo e per cui il mondo è in ogni sua parte mondo. Noi vorremmo essere lo stesso in tutte le cose, per poter riparare in esse, totalmente aderiti, quando quello stesso stesso che noi propaghiamo sembra evaderci, abbandonandoci a noi, non più stessi. Scaviamo nicchie in tutte le cose, a tutte le cose aderiamo parole. Ma noi siamo asintotici, corriamo per sempre vicini: al mondo, alle sue parti, a tutte le cose e poi allo stesso di noi, senza mai essere quello stesso stesso, senza che mai la differenza si sciolga in un felice connubio, smettendo di valere.

Oberblitz,
Vi sono pagine e pagine in un libro che non si ricorda d'aver lette, che si potevano saltare. Si ricorda qualche riga in qualche pagina, nell'uso drastico, e a me inusuale, della sottolineatura; così nella vita si ricordano episodi a sbalzo e si dimenticano giorni e giorni, come se non li si avesse vissuti. Si prova allora, eroicamente - si presume - ma in realtà conformi alla hybris consueta, a portare nel libro questa dimenticanza di giorni per riaverne, in vita, il rimedio per quella dispersione, a quell'oscuramento.
Se presupponiamo che la vita ci coincida, solo noi assenti la vita entra nel libro; così da esso non potrà venirci alcun recupero ma sempre un proseguimento da un punto che ci è taciuto e per questo mai per noi originario. Il libro non dice nulla della vita del suo autore così come l'autore non avrà in cambio nulla, dal libro, per la sua vita. La vita che entra nel libro, in assenza dell'autore e ad esso senza rimedio sfuggendo, vi rimane per sempre. Ma non il per sempre ultimativo perdurato in eterno: per sempre è un'eternità relativa e cedevole che si concede ad un'eventualità che potrebbe superarla, un'eternità che dura finché dura la vita.
Finché dura la vita il libro sarà la corrispondenza di due essenze: quella del suo autore e quella del lettore, che dal punto taciuto alla prima consegue. Il libro è disumano: in queste assenze proseguite l'umanità non ha luogo se non in quella breve disputa, ma sempre esterna al libro, in cui l'autore crede che la vita, nel libro chiusa, venga offerta al lettore in un attimo di cedevole eternità che dimostri il per sempre e, viceversa, il lettore ritiene, spesso con celato risentimento, lo stesso sia accaduto ed accada all'autore quasi per statuto; il libro, invece, non traspira, non respira, ci è finalmente estraneo, alieno.
Per sempre il libro tiene per sé la vita come una consuetudine anonima e senza seguito nel mondo dei nomi che seguitano a seguire e conseguirsi per allacciare un'evidenza instabile e inafferrata, forse la vita.
È disumano il libro: irriconoscibile a sé stesso come potrebbe esserlo una mutazione genetica, inerte come la volta celeste. Non accetta consuetudini, se non l'anonimia della vita, e dunque non consente manie calendariali, rituate applicazioni lavorative. Il libro non è un'opera nemmeno per il custode del teatro.
Alla fine del nostro vivere fatto di cose memorabili, il libro sarà una sorte immemorabile che avremo avuta senza essercene mai accorti.
Va da sé che la scrittura, questa armata sepolta del linguaggio ormai inane e proteico, sia del libro l'indistricata sedizione del tempo, il principio d'inerzia che consente al libro di rimanere. Si scrive solo quel che rinuncia a sé e dunque, nell'ambientalità (non più mondo) dell'autoreferenza, delle tecnicità concentriche e in ogni caso affermative, le parole tendono ad estinguersi, spesso ancor prima che l'invasività dei segni ne costituiscano una surroga.
Ti confesso di aver spesso nostalgia di quel che ancora non ho scritto. Per giorni porto con me pensieri e versi, a volte dimenticandoli, aspettando il distacco stremato dell'istinto di conservazione e del riguardo del tempo cronologico, dell'intuizione del mio stesso, per scrivere. La scrittura non è ontologica, è prima zoologica e poi gnoseologica, si stempera come un petrolio discreto, un carbone, ci riguarda come Cassiopea il Cigno. È l'estraneo che ci legge.

"Nei nostri desideri,
nei nostri rimpianti, nelle nostre ricerche, nelle nostre emozioni e passioni, e perfino nello sforzo che facciamo per conoscerci, noi siamo lo zimbello di cose assenti - che, per agire, non hanno neppure bisogno di esistere"*. Avevi ragione su Valéry. Grazie.
*Paul Valéry, Regards sur le monde actuel, Gallimard, Paris 1945/Sguardi sul mondo attuale, Adelphi, Milano 1994.

Oberblitz, febbraio.
Caro Giampaolo, delle cose di cui scrivi nell'ultima tua lettera sto a mia volta scrivendo nel cap. 3 del libro. Te lo farò avere quando sarà terminato. Di quando un libro sia da considerarsi terminato vorrei parlarti ora: di quando lo sia qualcosa in genere, e se si possa stabilire un termine che, rotondo e ben saldo, possa chiudere di per sé qualcosa e riporla come finita, non più richiesta nell'andatura del mondo.
Sarebbe banale sostenere solo che un libro, paradossalmente fatto fissando termini e stabilendo (in senso anche muratoriale) ambiti ben determinati, sia, per ragioni ermeneutiche, ancor prima filologiche e infine archeologiche, necessariamente senza fine; ma è bene almeno rammentarlo, e lo stesso grado di scontata illimitatezza sembra ugualmente costituire le cose - che possono essere così e così, dirsi in questo e quel modo, anche non essere pur essendo, a seconda di quale percorso si svolga per affermare quest'apparente contraddizione in termini. Insomma, il mondo non è come lo pensava Aristotele. Non perché Aristotele pensasse male, ma perché il mondo e il pensiero non possono stare insieme così come si pensa, legati, nell'aspetto del dalla copula dell'essere. L'essere è un artificio insufficiente. Questo essere di così forte schiatta, continente del tutto nell'oceano di nulla, è, a maggior ragione nella necessità del suo abuso, una plaga cedevole.
Noi siamo così in una posizione di insistita cedevolezza, dove qualcosa - noi anche - tiene solo cedendo, resiste arrendendosi. Come il Calamaro del Mar Rosso o il Marsupiale di Vidéora, possiamo conservarci solo sparendo. Nell'arte, non essendo fisiologicamente mimetici, siamo profondamente mimetici; nella tecnica lo siamo invasivamente. Il mimetismo profondo in qualche modo ci assolve dal perseguire comunque l'invasione di quanto ci è estraneo, perché in questa profondità, inconsapevolmente pari all'estraneo, siamo estranei noi anche, e soprattutto a noi stessi. In questo fondo punto di equilibrio fra intimità straniata ed estraneità intimizzata, arriva l'affondare della nostra cedevolezza: a questo corrisponde però - come per una turbolenza nello stato di cose, un fortunale - una perdita d'equilibrio e un nuovo affondare.
Da questa parte dunque, dalla parte dell'arte, abbiamo a che fare con un fondo inesplorabile, con una perdita senza ritegno che ci espone a non si sa cosa.
I Greci chiamavano la cosa , come quel che, vicino ma irraggiungibile, si lasci a un nostro aver a che fare, ma, discosto, si mantenga comunque per sé, richiedendoci, per appressarci ad esso, una pratica di vicinanza, un percorso di conoscenza. L'aver a che fare non è una pratica di possesso, bensì di rispettoso vicinanza, irrisolvibile e misteriosa. Il mistero avvolge quel che ci è più vicino e che mai risolverà in un congiungimento questa vicinanza; avvolge quello con cui abbiamo a che fare; avvolge le cose.
L'aver a che fare con il non saper cosa è la cosa dell'arte: il saper con cosa si ha a che fare è la cosa della tecnica.
Il saper cosa comporta un piano, cioè la stesura di un procedere che porti attraverso un territorio appoggiandosi a punti fermi in un'azione di conquista e, anche, un piano euclideo, che arresti lo sprofondamento opponendo ai fortunali dell'equilibrio qualcosa di più, e di meno arrendevole, di un punto.
Come sai, ho un legame d'affetto con il Principio di Archimede, nonostante abbia imparato tardi e male a nuotare e ancora mi sottragga ai tuffi. Potremmo dire il suo Principio, considerandone i ramificati sviluppi nello svolgersi di duemiladuecento anni, "Principio di galleggiamento"; o dirlo anche, forse meglio, "Principio di emergenza delle cose". Se volessimo andar oltre nell'insinuazione metonimica, lo diremmo "Principio di apparenza della realtà". Le cose sparirebbero assorbite da un fondo indifferente a loro e in sé stesso se un punto d'equilibrio nel loro sprofondare non le emergesse come proprio quelle cose su una sorta di linea di galleggiamento. Come se il fondo avesse in sé un piano virtuale che permetta sempre alle cose una seppur effimera emergenza galleggiante. Sembra dunque che la realtà del mondo galleggi sulla virtualità di un piano; ma in precario equilibrio, sul non sapere cosa del fondo.
Per contro, il saper cosa della tecnica si appunta a reticolo su un piano euclideo, rigido e orizzontato, che possa dare riferimenti all'esplorazione e al percorso fondativo, lasciando che si esprima la misura cibernitica, che si svolga nel perfetto situarsi del saper cosa delle cose una navigazione di conquista nella disponibilità senza riserve delle cose sapute: non vi è fondo, non vi è sparizione, nessuna perdita, come si addice alla virtualità della "rete". Sembra dunque che la virtualità della "rete" sia situata su un piano di spietata realtà.
Alla scomparsa del reale negli abissi del fondo si apre questa realtà che ti espongo in un chiasmo:

Allora: il mondo reale insiste su un piano virtuale; il mondo virtuale su un piano reale.
La consistenza virtuale del mondo reale è un fenomeno dell'esistenza, un suo manifestarsi in cui è misurato, nella dismisura del fondo e nella precarietà del galleggiamento, il senso del nostro stare al mondo, la proporzione dell'infondatezza di quel senso e la terribilità del suo affondamento.
Invece la realtà del virtuale è l'attesa di questo sprofondamento, l'attesa che rinvia in eterno quel che attende, che si fa tempo unico, insuperabile, che "tiene" al cospetto dell'affondare.
Non è più tempo di sospetti: quel che viviamo è già così risoluto da rendere remota ogni pratica di sospensione proprio come effetto di sé stessa; come se il tempo avesse tali accelerazioni, nel momento del dubbio, della sosta meditativa, da presentarci quello di cui dubitavamo e che ci dava da pensare, come ricordo. Ma ugualmente mi rimane la pigrizia di una sproporzione: di quale debba essere, se la coabitata e troppo ordinata confusione di chiasmi che è la "rete" appare come un'insuperata consistenza quasi ultraterrena del mondo della vita, tale che la vita stessa ne risulti sconfessata nella sua brevità, anche se senza rimedio confermata per tutto il resto (ma esiste un qualcos'altro della vita, per noi, oltre la sua brevità?); quale debba essere la grandezza dell'arte. Senza fine, direi, come se quel che facciamo e con il quale abbiamo a che fare, così labile e ben disposto nel suo aspetto di fuggevolezza, non ci avesse già sostituiti, chissà se non in eterno.

Caro Giampaolo,
mi scuso per il questionario ma da qualche tempo soffro di una seria avversione per la scrittura che mi ha rinsaldato nella speranza di potermene, un giorno, liberare: del resto, come pratica, essa risponde a funzionalità fisiologiche; rimane però non metabolizzabile, non smaltibile, si accumula in concrezioni dissimulate nello stoccaggio del libro ma alla prima occhiata pronte e fermentare in una schiuma impalpabile e permeante. Se la circonferenza della Terra è 2r = 2 6.378 km = 40.076 km, quella del mondo [posto lo schiumaggio (comprendente tutte le iperboli del comunicare, reti, quanti d'informazione e neutrini di compressione) - ] è - 2. Se dunque il mondo è così irragiungibilmente e apparentemente vasto, ogni nostra pratica, che non può esser altro, per emergenza vitale, che una pratica di galleggiamento, è un andare allo sfinimento a galla sulla schiuma mediale (meno materia aliena di blob, meno materia, più elemento indefinibile ma fondamentale: un flogisto contattabile), è un abbandono dei limiti in vista della proliferazione della comunicabilità. L'intimità del nostro limitarci a noi stessi appare così come un delimitarci - con il prefisso in accezione anche privativa - delimitanza la nostra ultima forma di egoismo una presenza asciugata, dopo il galleggiamento, come un papiro senza né capo né coda, estesa nel risultato di 2, ratrappita nella corsa dell'occhio fra le righe.
L'ipostasi del comunicare è un'iconostasi che a sua volta è un'estasi: ognuno, nella propria delimitanza comunicativa è nell'estasi dell'improprietà che gli si appropria. Che cos'è la comunicazione se non il far propria una improprietà? Cos'è il video se non un'iconostasi? Non vi è già nello schermirsi dello schermo un fenomeno di ritualità? E non è nello schermo, questa fenomenologia, perché prima è sempre stata nella scrittura e nel linguaggio?
Nel linguaggio ogni parte organica - lettera, parola, sintagma, segno - nella necessità logica di un legame (la radice da cui vuol dire raccolgo, raduno, tengo nella stretta di un assieme, lego prima che leggo) ha in sé una spinta oltre sé che, anziché interna, come mi è venuto di scrivere seguendo la stessa consuetudine quiescente del linguaggio riferendomi appunto a un "in sé", sembra invece sovrastante, mandata e irrefutabile come un vento "animale del linguaggio". Ma questo "oltre" è già destinato, non riserva per noi alcuna disperdente novità, solo ci attende, anzi, già sembra averci avuti. Immagina solo un valico lungo un tragitto da contrabbandieri, irrilevato dalle mappe, non segnato, tra in sé e oltre sé, un orlo senza connotazioni spaziali che sembra solo un'eventualità temporale ma che quando viene il suo momento si spazializza disperdendo la cognizione del tempo; l'orlo da cui spazio e tempo iniziano la propria divergenza, l'orlo della mistica, dove ci si sente esaurire da quel che non ha mai avuto inizio quando si principia come "già" del già sempre esaurito. Non vi è più conciliazione in seguito alla divergenza e a noi rimane inconciliata ogni parola.
È sempre stato mistico il rilevarsi della nostra inconciliabilità con il linguaggio ma ora, all'universo informatico, è più mistica l'invisibilità sofficemente inaccessibile del codice di compatibilità hardware, di accesso al software, dell'antifurto auto.
Il vettore segna la tendenza a 2 che fa posto al nostro mondo, del quale sto scrivendo un Atlante in versi. Seguirà la chiosa che mi chiedi*.
Da Oberblitz un abbraccio forte.
*A Juan de la Cruz [ora in John Holstein, God is not love, nananana CD-ROM (Too Loose#2)].

Caro Giampaolo,
che piacere ricevere ancora posta postale e poter rispondere con una lettera letterale: e confidare in tutta una procedurale sequela di gesti carnosi e ossosi di imbuco e ritiro, e carico e smisto, e colloco e insacco, e tolgo e di nuovo smisto e nuovamente imbuco e apro; che dispendiosa diluizione, quasi gorgogliante, dell'istantaneità tecnomediale: e che interludio di pensiero, che stagionatura, incantinamento e rinnovato incantamento per le parole, e le cose loro e nostre.
È il piacere dell'indomabile consueto: quella mansuetudine che ci fa trascuratamente ben volere le cose abituali che così meglio si celano, più discretamente a noi si sottraggono sviandoci per questa loro familiarità che spesso, subito discosta ma mentita, nasconde una terribilità anche ancestrale, mostruosa, ma per lo più misteriosamente naturale. Sarebbe troppo facile additare la scrittura come esempio di questa perversità condominiale; eppure di parola in parola, come di soglia in soglia, per usci origliati da spioncini che ci danno una microbica specchiatura, dalla quale altri ci vede intonsi e aerei come tondi di Tiepolo, trepidi e grondati, per scalinate babeliche e pianerottoli d'Erebo, è lì che in convissuta deflorescenza ci interniamo, ci ininoltriamo; anche Mattino di Turbinio si affaccia e stende panni da un condominio piranesiano, escheriano.