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Tiziano
Ogliari
OBERBLITZ:
nota all'opera visibile di Giampaolo Guerini
Studio dei valori e disvalori fonici dell'aggregazione delle parole.
Ogni aggregazione, inficiata o reale, pretende una assoluzione di significato
in una sinuosità sonora: "io ti assolvo vil cosa".
Il suono assolve.
"Eutocìa" è qualcosa di "vil cose assolte".
La creazione in bianco di parole inesistenti, non codificate, non è
il rifiuto di un'imposizione di linguaggio, ma l'estrazione di una realtà
inapparente e irrefutabilmente vera la cui esposizione funziona come
atto di dirompenza. Si deve ridurre la realtà al frazionamento
di sé stessa in innumerevoli quantità sempre non presenti,
ma purtuttavia, sempre chiamate e scritte. Lasciamo l'irreale alla nefandezza
dei poeti, le sole baccanti che fagocitano la realtà, i soli
che hanno doni di petulanza. Non si deve sonnecchiare sul metodo o sull'impossibilità
teorica e, soprattutto, non bisogna mettere in relazione la politica
con l'estetica, e tantomeno, le due precedenti con il reale.
Il politico è vissuto; il reale è trasporto, obliterato
e ricostruito nella connessione etica sempre irreale; la parola è
sempre increata, mai vissuta, geneticamente inesistente e per questo
già morta ma usata, usata nella morte per costruir storia di
parola e giustificarne la presenza immanente: la parola non è
mai stata scoperta. I poeti falliscono in ogni scrittura, si annientano
quando si determinano nella scrittura; il poeta, contrariamente a quanto
le nuove tendenze affermano, non ha funzione; egli, attende alle tendenze;
deve, anzi, dare alle parole infinite tendenze, dove la tendenza è
un andare filosofale della parola verso un verso, una direzione, senza
alcun fine: la direzione solo come grafia di moto, come parola che non
è mai.
La poesia è disfunzione dell'uomo senza funzione che s'insinua
nell'uomo funzionale per costringerlo allo iato, all'abbiezione politica
dentro l'etica. Uso il termine poesia per comodità d'impiego,
in quanto non ti parlo ormai più d'essa ma di un qualcosa di
ulteriore. Non quindi l'instaurazione del vuoto bensì quella
disgregante di un pieno coercibile o ampliabile, lateralizzabile o verticalizzabile
in base al vissuto (politico).
Il politico, quindi, condiziona la forma della parola recepita, il condizionamento
delle forme è iniziale e inevitabile, ma lo iato permane e agisce
poi sul vissuto mettendo in forse e in seguito distruggendolo, ristrutturandolo
in quella che ho chiamato abiezione politica, cioè stato di intransitività
dal politico all'etico. Questa "vilcosa", falsamente "il
poeta", vive non la parola, ma una simbiosi di parola con uno stadio
di più parole Altre: la parola non è mai vissuta. L'estetica
è intrascurabile essendo il modo di trasformabilità formale
dello iato, essa non è della creazione, è, e il poeta
ne subisce l'inganno, del colui che viene a contatto con la creazione:
quindi il poeta è esteta solo dopo la creazione e necessariamente
lo è lavorando su uno iato autogenerato per conseguenza. L'arma
di stato è la finzione estetica trasferita nell'etica, mezzo
di costruzione di una parola statalizzata, una, sola parola possibile:
carcere poetico, poesia.
Questa filastrocca è un intrattenimento allegro, magari inopinato,
di più persone, probabilmente un'effusione di demenza; ecco,
soffermiamoci sulla demenza: "Rigueur di demenza". Risignifichiamo
la demenza?
Questo breve studio è inequivocabile, solo il suo valore etico
condurrà all'incerto.
La
pagina che non c'è.
[da: Liriche semplici]
A volte una negazione può essere più affermativa di un'affermazione,
può essere proprio il "più" che decide l'affermarsi,
quel minimo e noto "oltre" che già prosegue. A volte
può essere questo stesso "poter essere", nella forma
del non ancora dato che sta per darsi, poiché comunque gli si
estende un'apertura. Più essere, a volte, questa stessa volta,
che è questa e non un'altra, non è una non volta, se l'altro
non è lo stesso. È lo stesso, infine e al fondo, se l'essere
è la mancanza di ogni distrazione.
Negare è il modo di dire del nostro linguaggio, ciò per
cui esso si distingue da quel che vuol dire. Il linguaggio nega sempre
qualcosa che comunque rimane, e rimane esso stesso da ciò che
vuol dire, come da un'estrema confidenza inconfessabile.
Poter negare è il poter dire, senza alcun potere. L'ultima difesa
delle cose e così il loro riparo, il loro intimo. L'ironia della
sorte.
Vista
su Oberblitz (paesaggio da una finestra di casa Guerini).
A Oberblitz, sul Tagliamento, si può dire esista una pieve romanica
il cui transetto, disassato rispetto al corpo della chiesa, formi un'abside
lunga, coronata dalle consuete creature fantastiche che aggettano e
sono ormai nate e incarnate.
Lì per lì, si può anche dire che nei paesaggi di
Cézanne, nei versi di Dante, Pascoli, nelle viste di Scardanelli
e Giorgione, quel che noi ora vediamo da fuori quadro sia lo stesso
visto "allora" da dentro: una pagina, o un quadro, è
un collo d'imbuto in cui qualcosa, che sta lì, condiverge, ci
porta dentro ricollocandoci fuori, in una disattesa, perpetua passione
d'attesa.
Si può anche dire che invece, e prender dei punti di sospensione
(come gli Stoici, come Descartes, come Husserl, come il Basket, come
la chimica elementare).
Si può dire di tutto. Pellegrinare a Oberblitz. Guadare il Tagliamento.
Ma c'è una sconvenienza, un taglio che ci rinfaccia che il tutto
non è abbastanza, non è sufficiente.
Mi pare che un decorso, ragionevolmente semplice, dell'opera (questa
parola svestiamola e rivestiamola come un'indossatrice che è
tanto corpo per gli abiti da essere un abito senza corpo), porti alla
sua perdizione recuperabile, al "noi che ci perdiamo nel tutto
insufficiente, e in tanto lo facciamo insufficiente in quanto recuperiamo
il punto di partenza" di perdizione. Faccio un esempio: entriamo
in un bosco per una camminata e ci troviamo persi. Il nostro primo riferimento,
nella ricerca di una via d'uscita, sarà quel "dove"
noi ci rendiamo conto di esserci perduti. Il punto che ci trova persi
è quello cui riferire il nostro ritrovarci; ci riferiamo al punto
in cui mancano i riferimenti.
Ci troviamo in uno spazio, in un tempo irriferibile, nonostante Prigogine
e il capitano Kirk.
Per riferirci pensiamo "allora" che i mostri della pieve di
Oberblitz sono anche in San Michele a Pavia, in Bosch, in Spielberg
e Lynch, e in quasi tutti i cartoni animati giapponesi; oggetti nautilus
che sembrano innalzarsi nell'etereo concettuale in realtà, o
invece, s'immergono nella nebulosa agitata del "ciò che
sta per essere chiamato", del prenominale, di "quel che"
Platone chiamava .
Fateci caso: quando entriamo in contatto con qualcosa, prima di dirne
il nome (anche solo pensandolo, anche senza esserne convinti), abbiamo
un rapporto di confusa materialità con questa cosa. È
una situazione che possiamo ben determinare quando usciamo dalla familiarità
degli oggetti e cerchiamo il nome per un oggetto inusuale, il cui "come
si chiama" non viene alla mente. Ci troviamo ad aver a che fare
con la prenominalità che trattiene gli oggetti estraniandoceli,
in una lieve, disponibile riluttanza. Allora diciamo che di lamiera
fessa son fatte tutte le automobili, di tela anche gli abiti e il bianco
è disponibile*: dalle acque sembra emergere un periscopio.
Ma non basta. Anche pensando alla comunanza, alla riferibilità
estrema o più che infinita di un oggetto chiamato in causa nell'opera,
di ogni parola implicata nel discorso, non vi è sufficienza.
Si sente che il voler dire vuol essere da meno di quel che dice: vuol
essere nemmeno minimale, ma aperto, perciò già sufficiente,
per aprire un discorso.
Dopo aver indossato e indoxato, abitato e abitato, un'opera è
un posto nel quale tutto ciò che conta vi succede al di fuori,
se lo si guarda da lì dentro.
*Lamiera, tela, bianco: si riferisce ad "oggetti" utilizzati
in alcune opere. - N.d.R.-
Caro
Giampaolo,
la tua esecuzione di "E"* (mi ha portato alla mente queste
locuzioni: "cerco sempre di uscire la sera, ma papà vuole
che rientri subito e così non sono mai sola", "l'infinito
eccovelo, ma non crediate che abbia il tempo di aspettare che si esaurisca")
meritava un luogo migliore, magari prima di un'opera lirica, per premessa
e per nostalgia, prima, anche, e anziché capire tutto subito.
Lì invece s'erano "Conan il barbaro", I "Mammutones"
e c'era quell'aria da "o poesia o morte" che mi debilita e
un po' stordisce (non è l'aria dei passi alpini e degli abbrivi
marini).
Nel Dizionario Filosofico di Abbagnano, alla voce "sincategorematico",
ho ritrovato in una citazione, un pensiero di Guglielmo di Ockham che
dice dell'infinito che per quanto di esso si possa predicare, e forse
proprio in misura di questo, "finisce" sempre per essere finito.
Certo non è questo il luogo per trattare un tale argomento, ma
un'impressione mi sento di comunicartela seppur brevemente: mi pare
che l'infinito appaia (forse solo a volte, o tuttalpiù il più
delle volte, non voglio assolutizzare) in maniera interstiziale, come
una repentina apparizione non accorgibile, di sfuggita, senza, di per
sé, aver di sé stesso una convinzione valida e ferma quanto
al proprio sé. L'infinito si trascura. Se Heidegger intende la
"cura" come il più proprio modo di stare insieme ambientale
dell'uomo, che nel suo ambientarsi all'ambiente compie l'ambientamento
dell'ambiente a sé, possiamo dire che l'infinito traversa questo
ambiente sbucandolo, come un estraneo comparente qua e là. Più
che estraneo lo direi non a noi comune, non adatto e adatto al nostro
stare insieme, barbaro.
L'interstizialità dell'infinito, mi pare paradigmatica di una
medesima interstizialità dell'arte. Dico paradigmatica perché,
seppur siano molte le analogie, non voglio instaurare un'analogia assoluta
tra arte e infinito, a maggior ragione considerando quanto difficile
sia difendere l'autonomia e la differenza dell'analogia dall'"identità",
con la quale viene, purtroppo, quasi sempre confusa. L'infinito è
l'infinito, l'arte è l'arte. Entrambi mi paiono interstiziali
e "trascurati". L'arte, di per sé e in quanto a sé,
si trascura, si dà una volta per sempre trascurandosi in infinito,
appunto come l'infinito che trapassa il trapasso di sé stesso,
appunto come l'arte.
Detto ciò, mi è forse più chiaro il motivo della
mia insofferenza verso gli ambienti che pretendono di ambientare a sé
tutto, chiamando a sé il più possibile, in egida ad una
ovunque riscontrabile "teorica dello shopping".
Il non stare in vetrina, davanti a una telecamera o a un campo di visione
che determini una visibilità accorgibile; la non disponibilità
a farsi riprendere che è poi, di fatto, la "non disponibilità",
è ciò che "delimita" l'interstizialità:
dell'arte e dell'infinito, ma anche del poter gustare un Coprinus Comatus
appena saltato nel burro, di avere l'accordo sottile semicromo dell'intesa.
Per accorgersi di questo darsi interstiziale bisogna prestare attenzione,
consapevolezza e forse una certa astuta attesa (anche nel senso di "prender
cura"). L'interstiziale è confuso e confondente e credo
che, per intelligere è la scusa, questo mundus di vetrinisti
abbia bisogno di luci ben puntate che indichino "che questo che
vedi è proprio questo". Ma anche così, con estremo
atto di fede io dico: "Non si sa mai".
*Milano Poesia 1991: per pianoforte ("Una misura col mi centrale
è scritta sul dorso di dieci libri e su ogni pagina degli stessi.
Suonarla, togliere la pagina e posarla sulla cordiera. Così pure
con ogni libro dopo che è stata eseguita ogni pagina".).
- N.d.R.-
Dispensa
dal guardare.
Se confidiamo nell'eternità dell'arte, non possiamo che trovarsi
ogni volta, a perdita d'occhio, spaesati di fronte alla sua fitta, praticamente
inestricabile necessità di stare con il più effimero e
labile; di convenire, magari passando inosservata o tutelandosi in una
segreta, con tutto il suo "al di fuori".
Io davvero non so se per comprendere un'opera sia necessario guardarla
e se comprenderla sia il miglior modo di stare con essa.
Certo il fatto stesso di non sapere, è un risultato sufficiente.
In fondo l'arte è così breve: impieghiamo anni a vivere,
e solo qualche attimo ci diamo a un quadro con cui non in tutti quegli
anni avremmo potuto imparare a stare, in esso farci capaci d'entrare.
Nei quadri non c'è entrata, se ne è sempre "al di
fuori"; forse, se guardiamo bene, ne siamo gli autori. Sono nostri
anche i fregi in cotto, i fari e il "vietato fumare"*; è
nostra anche l'idea, non importa quale, di sorprenderci a guardare.
Guardando, ci dispensiamo da un fatto ulteriore che non sta più
in noi ma fuori, a sua volta, e che rincorriamo appena ma poi lasciamo;
è una piccola burla del tempo, una giocata dello spazio, che
non sapendo dove stare ci induce a guardare. Non importa raggiungere,
vincere la giocata; possiamo anche ceder le armi, del senso e dell'intelletto,
del "tutto in noi umano". Il bello è che all'arte ci
si può anche arrendere senza mai esser fatti prigionieri.
Ma, se proprio all'autonomia dell'arte non riusciamo a rinunciare (così
come io non riesco ad affrancarmi da queste cadenza in "are");
se con lo sguardo-guado cerchiamo di far largo e indagare per carpire
almeno un motivo, il moto che ha spinto l'impulso primitivo; se non
ci basta che ogni quadro abbia il mondo come stessa cornice; possiamo
consumar sempre un'attesa, una minuta stima, che qualcosa accada, nel
poi o prima.
*Fregi in cotto, fari, "vietato fumare": riferimenti al luogo
d'esposizione delle opere. - N.d.R.-
A
Oberblit.
Credevo d'aver fatto i conti con la realtà, invece è solo
una breve lontananza che mi fa supporre d'aver capito, in tanti e vari
modi, in qualche mondo e per quale rendiconto mi tocca essere. E la
stessa leggerezza di questo esser toccati, che ci apre una sorte sempre
mai conosciuta, ribadisce la lontananza: è un movimento che ci
viene incontro da un posto in cui non siamo, per confermarci che adesso,
in questo altro posto, noi siamo "qui". La realtà,
del resto, è la perdita implicita che ci riguarda, e che si mette
da parte, ogni volta che parliamo, guardiamo, tocchiamo e magari anche
se solo pensiamo, visto che il pensiero è l'istinto dell'uomo.
Pensare in un quadro, è un'operazione di nostalgia ardita e così
anche una conquista involontaria.
Ricordo d'aver passato qualche mattinata alla Galleria dell'Accademia
di Venezia, davanti alla Tempesta di Giorgione, cercando di diventarla.
Non: capire, interpretare; ma proprio diventare.
Ci si rammarica alla fine di non essere quanto di più si potrebbe,
ma si avverte il sollievo di esser perlomeno riusciti a essere quel
quanto basta che diventa, per pacificarci, il più possibile.
Rimanevo lì davanti al quadro davvero senza pensiero, come toccato
dallo smarrimento ma anche da una precisa pur se non del tutto comprensibile
equidistanza, che mi faceva rimanere quel che ero, e il fatto di rimanere,
di conquistare solo del tempo, mi convinceva che seppur profuga della
realtà, nel quadro qualcosa mi era ospite.
Quel che potrebbe essere alla fine di un quadro, poco sopra o poco sotto
la sua linea di galleggiamento, non dimostra il quadro: del resto il
quadro si dimostra bastando a sé stesso. Ma basterebbe a sé
stesso non vale, è un gioco fuori della norma. Il quadro è
un gioco che non vale; basta e bada a sé stesso mettendoci fuori,
da parte. Da parte noi, da parte la realtà: forse qui un conto
potrebbe anche tornare, un cortese equilibrio ci invita sulla fune.
A Oberblitz passo ogni tanto in treno, che lì non ferma (è
una piccola stazione); per vedere mi tocca inquadrare tutto dal finestrino.
L'ultima volta, chissà se lo sarà davvero, guardando fuori
(dalla finestra) m'è parso di non veder nulla: forse ho pensato
di non veder nulla, in realtà non avevo un pensiero (come a Venezia).
Pensare non è avere un pensiero: anche se non si ha nulla succede
di pensare, semplicemente si è nullapensanti (se si dicesse che
si pensa il nulla si darebbe al pensare un pensiero). Non è obnubilamento,
sorpresa o stupore, è un semplice nitore che ci concede di avere
un segreto.
A Oberblitz, come a Venezia, come in qualsiasi altro mondo, non si ha
mai tempo di pensare un pensiero che non c'è; ma in un quadro
possiamo confidarci il segreto, che non tace mai, di non vedere, e sostenerne
comunque il pensiero.
Oberblitz,
agosto...*
È possibile che il nulla sia la virtualità di tutto e
che da un quadro il suo "conpositore", virtualmente morto,
ci manifesti la sua indecidibilità della nostra collocazione:
se noi si sia futuri o passati, rispetto al quadro, o se, lì
presenti, ci si senta nella costrizione di renderci un presente per
consentire all'ottica della percezione. È possibile, ma "non
si può mai sapere". Nei quadri a volte s'inquadra, ed è
già un paradosso, quella che definirei "metodica della scansione
esterna". C'è un movimento, immoto come quelli di Zenone
d'Elea, che ci conduce fuori quadro o che ci indica come esso sia un
luogo in cui noi, senza scalpiccii e passi felpati, passiamo, come il
fuori dentro. Lo schiarire dei tetti e l'allargare delle acque verso
la destra dell'immagine nella Veduta di Delft di Vermeer ci portano
fuori da quel lato, come da un estuario.
Il quadro è un ricorso semplice all'estricabile varietà
del mondo ma prima di tutto è una veglia patita sulla sua ineludibile
presenza: sentirvisi dislocati significa certo appartenere al mondo,
ma come una sua oltranza. Come, nelle parabole di Zenone, a dimostrare
l'immobilità è il movimento, l'unicità è
il molteplice e la tartaruga non sarà mai raggiunta da Achille
piè-veloce, noi non riposeremo mai in un quadro.
Il mondo a cui ci apprestiamo ci darà viste su una virtualità
(rimane poi da vedere se già il concetto di "mondo"
non sia "in realtà" il prototipo virtuale), su una
sorta di incarnazione iconica degli algoritmi. Uno dei caratteri fondamentali
di questa virtualità sarà quello di "costruire il
presente", di recuperarlo, attraverso un atto di cosciente emendazione,
da quell'alea in cui continuamente trapassa, da Agostino a Gadamer.
Il presente ci si consegnerà nella forma di una realtà
finalmente prevedibile e richiedibile, potremo scegliere e disporne
come di un canale televisivo. Saremo ancor più i suoi questurini
ma ci assolveremo, in questa virtuale redenzione, da ogni colpa, in
quanto a noi il presente si consegnerà costituendosi, come per
riparare a una "sua" colpa.
Nelle Vedute di Oberblitz vi è un'apertura, un passaggio
che conferma il quadro come posto in cui e da cui bisogna passare; vi
è tutta la formale presenza del passare "da lì"
di tutto, che apre il passaggio-paesaggio: ma tutto è al di fuori
delle nostre aspettative. Se tutto il mondo che contorna il quadro è,
nel proprio aspetto, quanto ci aspettiamo, tutto questo stesso mondo,
che conviene nel quadro come suo al di fuori, è quanto non ci
saremmo mai attesi: un'inaspettata presenza.
Ora, detto questo, e detto che ogni quadro, anche suo malgrado, è
una "veduta", va detto che ogni veduta, per forza, è
un quadro, una coazione al presente. La fretta del passare deve conquistarsi
uno spazio, un posto, per rimanere. Nel quadro rimane presente lo spazio
del passaggio, dell'irrefrenabile. Il presente, nel quadro (ma anche
in qualche altro luogo) è una misura di uno spazio provenuta
e destinata dall'aver e al dar tempo. Non si tratta della solita diatriba
spaziotemporale o dell'ambivalere che li placa, spazio e tempo divergono:
lasciandosi portano a sé, "a grappolo", quanto è
consentito: un violino e un tripode (il Taviolino**), la Montagne
de Sainte-Victorie, questo e quell'altro. La "convenienza"
di questo e quello (Gombrich dice l'"essere a posto") è
ciò che poi, pur nella banalità della procedura e dell'espediente,
determina l'eccezionalità dell'arte. Un altro ossimoro per le
fatiche di Zenone.
Una Veduta di Oberblitz è un acceleratore di particelle
e il rostro dell'esistenza; non meno rigorosa di un'equazione, più
patita di un'equazione. Nella schiacciante e quadrata presenza del suo
presente ci si sente "costituiti". Non vi è scelta
che passando da un lettore d'impulsi cambi la nostra visuale: questo
indica non che l'arte esprima una virtualità diversa da quella
della scienza, ma che è della virtualità il "diritto
al rovesciamento del guanto" che la adatti all'habitat di permanenza
e di evenienza, cosiccome la tartaruga, superata da Achille in velocità,
arriverà pursempre prima di lui. Noi, nonostante tutto, non riusciamo
a comprendere che tutto ciò che non esiste assiste la nostra
esistenza cosiccome, nella nostra esistenza, noi assistiamo a tutto
quanto non esiste.
*Ho scritto questa breve nota all'opera visibile di Giampaolo Guerini
nella sala per colazione della pensione Ninpha di Oberbltiz. La signora
Tina Nieder- Pimento, la proprietaria, mi ha servito sempre colazioni
molto abbondanti e ben cucinate, il tempo fuori è sempre stato
minaccioso; scrivere è stato senz'altro il modo migliore di conciliare
il tempo.
**Un piccolo tavolo costituito da un sostegno metallico sormontato da
un violino capovolto (in Lo stato del dove, p. 41) - N.d.R.-
Oberblitz,
novembre...
"Un espediente per non sfuggire al proprio
destino di scrittore è un espediente
per sfuggire a ciò che è scritto".
Stamane, la signora Tina (mi ha svelato un segreto: il suo vero nome
è Mattina; furono gli amici, nell'adolescenza, a chiamarla Tina,
poiché le sue sembianze iniziarono allora a cambiare da quelle
di piccola matta bambina a quelle di "femmina del tino", "dove
fermenta il vino", per via di una certa, del resto felice, fisica
opulenza) ha iniziato un umido con funghi delle Alpi: Canterellus cibarius,
Canterellus lutescens, Boletus pinicola, Lacterius deliciosus.
Non vi è nulla come i profumi della cucina e la chiacchiera lontana
della televisione che mi ricordi certi momenti in cui, da veramente
piccolo, iniziavo a voler scrivere poemetti. I miei modelli erano Omero
e Pascoli, il mio principale desiderio capire perché mai un "verso",
che pure si chiamava "verso", non portasse in realtà
in un luogo ma in un punto da cui si parte, per sempre; perché,
se non si distoglieva lo sguardo, ci si ritrovava smarriti o quanto
meno disancorati: nulla a che vedere con i riferimenti precisi della
realtà, nulla a che vedere nemmeno con l'evasione, anzi, più
stavo su un verso più sentivo oscurarsi l'aria e chiudersi ogni
via d'uscita. Pensavo che, senza dubbio, un verso, una poesia e poi
l'arte in generale fossero lì a presentare, con un artifizio
anche malevolo, l'inconfessabile.
C'è qualcosa, al di sotto del normale, normotetico galleggiamento
dei significati delle cose, che non smette mai di agire; qualcosa che
continua e per il fatto di questo suo continuare, che sembra inarginato
e inarginabile, crea uno svuoto che ci attrae e collimandoci ci trascina,
ma anche ci chiude. Non ho mai fatto bagni al fiume o al canale proprio
perché il continuare dell'acqua sotto i ponti mi dava già,
da fuori, il senso del qualcosa che da sotto agisce perenne e che si
poteva saper meglio da lì che non dal gorgo. Temevo anche per
la mia vita, certo, e avevo la certezza d'aver scelto bene, nella mia
posizione d'osservatore, poiché mentre tutto correva inarginato
e inarginabile, la mia immagine e tutto quanto riflesso (ranuncoli,
pioppi, rovi di more e canne) rimaneva: l'inconfessabile rimaneva, inconfessato.
Solo ora confesso, ad altri da me ma a me stesso per coincidenza sulla
via, perché io capito lì puntuale, sono un incontro inevitabile
della confessione, anche se si confessa sempre ad altri.
Ho l'impressione che Tina si sia accorta solo poco fa, mentre mi svelava
il suo segreto, di chiamarsi Mattina. Lo sapevano in realtà tutti:
i parenti, gli amici dell'infanzia, qualche amante, e poi è scritto
nei documenti. Si sa, un segreto è quanto di più conosciuto
si possa immaginare, ma è il confessarlo che lo fa essere segreto;
nel confessare è come se qualcosa uscendo ritornasse a sé,
come se la dispersione fosse un ritrovarsi.
A questo punto o a quel punto, dopo la confessione, si potrebbe tranquillamente
pensare che l'inganno finisca, che tutto sia chiaro: invece nessuno
chiama più Tina "Mattina", per nessun motivo, né
per il vino della Valle, né mentre, suppongo, goda delle sue
grazie.
Oberblitz
(?).
Un tempo, l'uomo, del resto realizzato in sé da quest'incarico
e per questo compito, metteva a repentaglio la propria vita per consegnare
un messaggio: non sempre vi riusciva; spesso un'interferenza - un'imboscata,
un malanno, o, nel migliore dei casi, una distrazione sentimentale -
impediva la "corrispondenza". La "medicalità"
del corrispondere, come la topicità del farmaco, da quel tempo
è un metodo di apertura sul nulla: quel che corrisponde chiude,
quel che non corrisponde apre o lascia aperto; quel che si lascia, in
quest'aperto, è qualcosa che, per quell'incorrispondere, non
dice nulla: è un nulla, quello su cui, come dice Wittgenstein,
siccome non si può dire bisogna tacere.
Oggi che abbiamo, nella tecnologia elettronica, redento l'imprevenuto
e imprevedibile e impregiudicati i nostri messaggi, ci resta solo, come
sempre, la più naturale delle incorrispondenze, quella del linguaggio
con la realtà, che è anche - forse soprattutto - la nostra
più naturale corrispondenza con il nulla. Il linguaggio che "corrisponde"
al nulla (come ancor più l'arte che è un "a fortioni"
del linguaggio, la sua iperazione e dunque la sua più grande
debolezza) ha come destino l'irriconoscibilità; prove ed esempi
ne sono le interpretazioni, le ermeneutiche, le stime e le attribuzioni
ma soprattutto la necessità di un autore, di una firma a cui
legare, a cui, infine, far corrispondere.
Non ho certezza che senza linguaggio non esisterebbe mondo, ma son certo
che senza linguaggio non esisterebbe il nulla. Ogni volta, nel sempre
in cui abbiamo a che fare con il linguaggio, siamo in esso strettamente
tenuti alla riconoscenza verso l'irriconoscibile; ogni volta che ci
intratteniamo con l'arte, proprio perché forse si danno dei mondi
anche senza linguaggio, riconosciamo al linguaggio l'indispensabilità
del nulla.
Caro
Giampaolo,
l'affresco di Vasari-Zuccari nella cupola di Brunelleschi, scoperto
ieri dopo i restauri, per televisione mi è sembrato il barattolino
Sammontana in cui un mio collega, ormai coperto di fama, si tuffa slinguettando:
il canone estetico di Vasari- Zuccari come quello di Luca Matteo Ferrari
a venti centimetri da un gelato preconfezionato! È una sedizione
teorica; ma aperta dalla seduzione della teoria. La stessa che spinge
Socrate incontro ai suoi interlocutori; la finitezza mai definitiva
del domandare; il volano della metafisica - lo stesso usato da Heidegger.
Perché dialogare con Socrate se poi alla fine, addirittura pensando
di definire il "mai definitivo" con la cicuta, avrà
sempre ragione lui? Perché non assegnare agli eredi Vasari-Zuccari
una quota degli utili Sammontana e al Sig. Ferrari uno spazio alla Biennale
di Venezia?
L'evidenza del dato ci lascia l'evidente dato di una estrema libertà.
Se il dato, per esser tale, deve essere nel suo darsi e questo darsi,
in quanto muoversi da un trattenimento, è un venire all'evidenza,
non vi può essere dato senza evidenza e così, l'evidenza
del dato, è una tautologia, un senso talmente evidente da rimanere
chiaro anche nella sua mancanza: la tautologia è l'aver senso
della mancanza di un senso proprio per esser data nell'evidenza del
suo darsi. Dunque "qualsiasi" dato in quanto evidente e quindi
tautologico è un senso mancato dal senso; ma è pursempre
qualcosa, come il nulla che si esistentiva nel linguaggio: del resto
sta al linguaggio la reggenza delle cose.
Il punto è: "il linguaggio che cerca il modo come
d'essere sostituito". Come può il già da sempre sostituentesi
e sostituente essere sostituito? Se dico che Nieder-Pimento ha pescato
stamane una trota da 1,7 kg (non so se dalla cupola di Vasari-Zuccari
avvalendosi delle capacità in apnea di Luca Matteo o dove), apro
una realtà sulla quale posso porre un quesito di verità
(è vero/non è vero), ma che risponda in un modo o nell'altro
non cambia e non chiude l'aperto dell'apertura; che sia vero o non vero
è lo stesso (irrefutabilità del reale, impossibilità
a sfuggirgli come ultraveggenza del linguaggio, a cui non si riesce
a sottrarre le cose*). Se è vero; il linguaggio non è
già da sempre in sé sostituito nel proliferare del suo
stesso? Se non è vero: il linguaggio non è già
da sempre in sé sostituito nel proliferare del suo stesso?
Eulalia Pimento (la figlia di Tina) mi ha confessato, al termine di
una come al solito per me perdente discussione serale, che, a suo parere,
l'uomo del XXI secolo sarà l'uomo dei Volani: finalmente! Dopo
2.500 anni di uomo dei Valori. (È assai graziosa e perspicace).
*Scusa la concitazione.
Alla
base
della passione mistica (una base spontaneamente mai a sufficienza fondata),
vi è lo sconforto della regola, che non esclude da quel che prefissa
un resto di negazione e abnubilamento, ma da questo rimane, come una
vicissitudine disperata, alla fine (che si spera coincisa con l'apertura
dell'eterno) di un trascorso nel nulla e nella sua stessa imperitura
negazione.
La felicità di chi è riuscito, nello scrivere un sonetto,
a redimere nella regola il tumulto del resto escluso, è subito
lo sconforto del render conto nel sé del linguaggio - quindi
"a tutti" - del rimanere di questo resto, infine irredimibile*.
La regola è sempre un principio di ragione che non è mai
una ragione sufficiente. È questa la sua grandezza. Ed è
la stessa grandezza del linguaggio, solo con sé stesso, che non
può dire tutto ma nel quale il segreto non tace mai.
Il guaio è che possiamo credere solo quel che già sappiamo;
quel che non sappiamo lo possiamo pensare. Il pensiero, a volte, mi
pare solo, di una solitudine non aderita, lontana da quella del linguaggio,
lieve e prima o poi infranta come la galla della vita.
*Vedi L'infinito di Leopardi.
Caro
Giampaolo,
in "tutto quello che non sappiamo lo possiamo pensare" (immaginiamo
sia un profondo stagno fiorito di ninfee) possiamo pescare pesci dalle
varie forme, a colori e, forse, anche nomi.
Il primo pesce: "I pesci si dice siano muti per antonomasia; ce
lo diciamo noi umani, abituati a dire delle cose (non solo a noi)".
Il secondo pesce ci dice che il pensiero e il sapere non sono lo "stesso";
che può darsi un pensiero senza sapere e un sapere senza pensiero
(di cui forse il primo pesce qualcosa sa) e che, mentre è reale
che tutto quel che non sappiamo lo possiamo pensare, non altrettanto
lo è che tutto quel che non pensiamo lo possiamo sapere; cioè,
non sappiamo meno di quel che pensiamo, dunque il sapere non si dà
tutto nel pensiero, mentre il reale sì. Sembra, insomma, che
il sapere sia qualcosa che ci appartiene meno del pensiero, il quale
ci corrisponde di più ma in cui ci sentiamo accasati; più
comodo, paradossalmente, è per noi lo star nel sapere. Il sapere
ci risolve mentre il pensiero ci dissolve, sembra a volte non saper
nemmeno ritornare a sé stesso, riconoscersi per quel che poc'anzi
è stato.
Il terzo pesce, proprio perché è il terzo, cita la terza
terzina (del primo Canto del Paradiso*) e ci dice che esiste
(senza essere) una profondità in cui non vi sono pesci da pescare:
un fondo di pensiero senza sapere cui "dietro la memoria non può
ire".
Al terzo mi fermo. Possiedo, ahimè, una grossa testa, ma un piccolo
canestro da pesca.
*Perché appressando sé al suo disdire,/nostro intelletto
si profonda tanto/che dietro la memoria non può ire. - N.d.R.-
Il
linguaggio concede il reale a condizione della sua impossibilità.
(da: Repentaglio del metodo).
Penso spesso a quel che non riesco a scrivere, a dire, a vivere. Non
è la stessa cosa. Quel che non si riesce a scrivere è
ben di più. Vi è un immane "Onniverso" che non
si lascia e non s'è mai lasciato persuadere da alcuna parola
e che, discosto, son certo persuada quelle stesse parole cui si è
sottratto, che alla fine, senza saperlo, parlano di lui. Ci è
fatto così un grande dono, talmente grande da venir in genere,
e per la più grande delle vanità umane, confuso per una
nostra speciale capacità; ed invece di varcare confini, torniamo
al focolare mansueti, come dopo un ultimo sacrificio, nel tepore della
parola. Ciò che differenzia l'uomo è il non accettare
di essere quel qualcosa che si dice essere, quindi non accettare di
essere quell'essere per cui vale ogni differenza. Noi vorremmo estenderci,
in avvicinamento continuo, sino alla immedesimazione, alla stesseità,
all'assoluta identità, sino e poi sopra al tutto che ci si fa
incontro, per poter essere quello stesso che pervade il mondo e per
cui il mondo è in ogni sua parte mondo. Noi vorremmo essere lo
stesso in tutte le cose, per poter riparare in esse, totalmente aderiti,
quando quello stesso stesso che noi propaghiamo sembra evaderci, abbandonandoci
a noi, non più stessi. Scaviamo nicchie in tutte le cose, a tutte
le cose aderiamo parole. Ma noi siamo asintotici, corriamo per sempre
vicini: al mondo, alle sue parti, a tutte le cose e poi allo stesso
di noi, senza mai essere quello stesso stesso, senza che mai la differenza
si sciolga in un felice connubio, smettendo di valere.
Oberblitz,
Vi sono pagine e pagine in un libro che non si ricorda d'aver lette,
che si potevano saltare. Si ricorda qualche riga in qualche pagina,
nell'uso drastico, e a me inusuale, della sottolineatura; così
nella vita si ricordano episodi a sbalzo e si dimenticano giorni e giorni,
come se non li si avesse vissuti. Si prova allora, eroicamente - si
presume - ma in realtà conformi alla hybris consueta, a portare
nel libro questa dimenticanza di giorni per riaverne, in vita, il rimedio
per quella dispersione, a quell'oscuramento.
Se presupponiamo che la vita ci coincida, solo noi assenti la vita entra
nel libro; così da esso non potrà venirci alcun recupero
ma sempre un proseguimento da un punto che ci è taciuto e per
questo mai per noi originario. Il libro non dice nulla della vita del
suo autore così come l'autore non avrà in cambio nulla,
dal libro, per la sua vita. La vita che entra nel libro, in assenza
dell'autore e ad esso senza rimedio sfuggendo, vi rimane per sempre.
Ma non il per sempre ultimativo perdurato in eterno: per sempre
è un'eternità relativa e cedevole che si concede ad un'eventualità
che potrebbe superarla, un'eternità che dura finché dura
la vita.
Finché dura la vita il libro sarà la corrispondenza
di due essenze: quella del suo autore e quella del lettore, che dal
punto taciuto alla prima consegue. Il libro è disumano: in queste
assenze proseguite l'umanità non ha luogo se non in quella breve
disputa, ma sempre esterna al libro, in cui l'autore crede che la vita,
nel libro chiusa, venga offerta al lettore in un attimo di cedevole
eternità che dimostri il per sempre e, viceversa, il lettore
ritiene, spesso con celato risentimento, lo stesso sia accaduto ed accada
all'autore quasi per statuto; il libro, invece, non traspira, non respira,
ci è finalmente estraneo, alieno.
Per sempre il libro tiene per sé la vita come una consuetudine
anonima e senza seguito nel mondo dei nomi che seguitano a seguire e
conseguirsi per allacciare un'evidenza instabile e inafferrata, forse
la vita.
È disumano il libro: irriconoscibile a sé stesso come
potrebbe esserlo una mutazione genetica, inerte come la volta celeste.
Non accetta consuetudini, se non l'anonimia della vita, e dunque non
consente manie calendariali, rituate applicazioni lavorative. Il libro
non è un'opera nemmeno per il custode del teatro.
Alla fine del nostro vivere fatto di cose memorabili, il libro sarà
una sorte immemorabile che avremo avuta senza essercene mai accorti.
Va da sé che la scrittura, questa armata sepolta del linguaggio
ormai inane e proteico, sia del libro l'indistricata sedizione del tempo,
il principio d'inerzia che consente al libro di rimanere. Si scrive
solo quel che rinuncia a sé e dunque, nell'ambientalità
(non più mondo) dell'autoreferenza, delle tecnicità concentriche
e in ogni caso affermative, le parole tendono ad estinguersi, spesso
ancor prima che l'invasività dei segni ne costituiscano una surroga.
Ti confesso di aver spesso nostalgia di quel che ancora non ho scritto.
Per giorni porto con me pensieri e versi, a volte dimenticandoli, aspettando
il distacco stremato dell'istinto di conservazione e del riguardo del
tempo cronologico, dell'intuizione del mio stesso, per scrivere. La
scrittura non è ontologica, è prima zoologica e poi gnoseologica,
si stempera come un petrolio discreto, un carbone, ci riguarda come
Cassiopea il Cigno. È l'estraneo che ci legge.
"Nei
nostri desideri,
nei nostri rimpianti, nelle nostre ricerche, nelle nostre emozioni e
passioni, e perfino nello sforzo che facciamo per conoscerci, noi siamo
lo zimbello di cose assenti - che, per agire, non hanno neppure bisogno
di esistere"*. Avevi ragione su Valéry. Grazie.
*Paul Valéry, Regards sur le monde actuel, Gallimard, Paris 1945/Sguardi
sul mondo attuale, Adelphi, Milano 1994.
Oberblitz,
febbraio.
Caro Giampaolo, delle cose di cui scrivi nell'ultima tua lettera
sto a mia volta scrivendo nel cap. 3 del libro. Te lo farò avere
quando sarà terminato. Di quando un libro sia da considerarsi
terminato vorrei parlarti ora: di quando lo sia qualcosa in genere,
e se si possa stabilire un termine che, rotondo e ben saldo, possa chiudere
di per sé qualcosa e riporla come finita, non più richiesta
nell'andatura del mondo.
Sarebbe banale sostenere solo che un libro, paradossalmente fatto fissando
termini e stabilendo (in senso anche muratoriale) ambiti ben determinati,
sia, per ragioni ermeneutiche, ancor prima filologiche e infine archeologiche,
necessariamente senza fine; ma è bene almeno rammentarlo, e lo
stesso grado di scontata illimitatezza sembra ugualmente costituire
le cose - che possono essere così e così, dirsi in questo
e quel modo, anche non essere pur essendo, a seconda di quale percorso
si svolga per affermare quest'apparente contraddizione in termini. Insomma,
il mondo non è come lo pensava Aristotele. Non perché
Aristotele pensasse male, ma perché il mondo e il pensiero non
possono stare insieme così come si pensa, legati, nell'aspetto
del dalla copula
dell'essere. L'essere è un artificio insufficiente. Questo essere
di così forte schiatta, continente del tutto nell'oceano di nulla,
è, a maggior ragione nella necessità del suo abuso, una
plaga cedevole.
Noi siamo così in una posizione di insistita cedevolezza,
dove qualcosa - noi anche - tiene solo cedendo, resiste arrendendosi.
Come il Calamaro del Mar Rosso o il Marsupiale di Vidéora, possiamo
conservarci solo sparendo. Nell'arte, non essendo fisiologicamente mimetici,
siamo profondamente mimetici; nella tecnica lo siamo invasivamente.
Il mimetismo profondo in qualche modo ci assolve dal perseguire comunque
l'invasione di quanto ci è estraneo, perché in questa
profondità, inconsapevolmente pari all'estraneo, siamo estranei
noi anche, e soprattutto a noi stessi. In questo fondo punto di equilibrio
fra intimità straniata ed estraneità intimizzata, arriva
l'affondare della nostra cedevolezza: a questo corrisponde però
- come per una turbolenza nello stato di cose, un fortunale - una perdita
d'equilibrio e un nuovo affondare.
Da questa parte dunque, dalla parte dell'arte, abbiamo a che fare
con un fondo inesplorabile, con una perdita senza ritegno che ci espone
a non si sa cosa.
I Greci chiamavano la cosa ,
come quel che, vicino ma irraggiungibile, si lasci a un nostro aver
a che fare, ma, discosto, si mantenga comunque per sé, richiedendoci,
per appressarci ad esso, una pratica di vicinanza, un percorso di conoscenza.
L'aver a che fare non è una pratica di possesso, bensì
di rispettoso vicinanza, irrisolvibile e misteriosa. Il mistero avvolge
quel che ci è più vicino e che mai risolverà in
un congiungimento questa vicinanza; avvolge quello con cui abbiamo a
che fare; avvolge le cose.
L'aver a che fare con il non saper cosa è la cosa dell'arte:
il saper con cosa si ha a che fare è la cosa della tecnica.
Il saper cosa comporta un piano, cioè la stesura di un
procedere che porti attraverso un territorio appoggiandosi a punti fermi
in un'azione di conquista e, anche, un piano euclideo, che arresti lo
sprofondamento opponendo ai fortunali dell'equilibrio qualcosa di più,
e di meno arrendevole, di un punto.
Come sai, ho un legame d'affetto con il Principio di Archimede, nonostante
abbia imparato tardi e male a nuotare e ancora mi sottragga ai tuffi.
Potremmo dire il suo Principio, considerandone i ramificati sviluppi
nello svolgersi di duemiladuecento anni, "Principio di galleggiamento";
o dirlo anche, forse meglio, "Principio di emergenza delle cose".
Se volessimo andar oltre nell'insinuazione metonimica, lo diremmo "Principio
di apparenza della realtà". Le cose sparirebbero assorbite
da un fondo indifferente a loro e in sé stesso se un punto d'equilibrio
nel loro sprofondare non le emergesse come proprio quelle cose
su una sorta di linea di galleggiamento. Come se il fondo avesse in
sé un piano virtuale che permetta sempre alle cose una seppur
effimera emergenza galleggiante. Sembra dunque che la realtà
del mondo galleggi sulla virtualità di un piano; ma in precario
equilibrio, sul non sapere cosa del fondo.
Per contro, il saper cosa della tecnica si appunta a reticolo
su un piano euclideo, rigido e orizzontato, che possa dare riferimenti
all'esplorazione e al percorso fondativo, lasciando che si esprima la
misura cibernitica, che si svolga nel perfetto situarsi del saper
cosa delle cose una navigazione di conquista nella disponibilità
senza riserve delle cose sapute: non vi è fondo, non vi è
sparizione, nessuna perdita, come si addice alla virtualità della
"rete". Sembra dunque che la virtualità della "rete"
sia situata su un piano di spietata realtà.
Alla scomparsa del reale negli abissi del fondo si apre questa realtà
che ti espongo in un chiasmo:
Allora:
il mondo reale insiste su un piano virtuale; il mondo virtuale
su un piano reale.
La consistenza virtuale del mondo reale è un fenomeno
dell'esistenza, un suo manifestarsi in cui è misurato,
nella dismisura del fondo e nella precarietà del galleggiamento,
il senso del nostro stare al mondo, la proporzione dell'infondatezza
di quel senso e la terribilità del suo affondamento.
Invece la realtà del virtuale è l'attesa di questo sprofondamento,
l'attesa che rinvia in eterno quel che attende, che si fa tempo unico,
insuperabile, che "tiene" al cospetto dell'affondare.
Non è più tempo di sospetti: quel che viviamo è
già così risoluto da rendere remota ogni pratica di sospensione
proprio come effetto di sé stessa; come se il tempo avesse tali
accelerazioni, nel momento del dubbio, della sosta meditativa, da presentarci
quello di cui dubitavamo e che ci dava da pensare, come ricordo. Ma
ugualmente mi rimane la pigrizia di una sproporzione: di quale debba
essere, se la coabitata e troppo ordinata confusione di chiasmi che
è la "rete" appare come un'insuperata consistenza quasi
ultraterrena del mondo della vita, tale che la vita stessa ne risulti
sconfessata nella sua brevità, anche se senza rimedio confermata
per tutto il resto (ma esiste un qualcos'altro della vita, per noi,
oltre la sua brevità?); quale debba essere la grandezza dell'arte.
Senza fine, direi, come se quel che facciamo e con il quale abbiamo
a che fare, così labile e ben disposto nel suo aspetto di fuggevolezza,
non ci avesse già sostituiti, chissà se non in eterno.
Caro
Giampaolo,
mi scuso per il questionario ma da qualche tempo soffro di una seria
avversione per la scrittura che mi ha rinsaldato nella speranza di potermene,
un giorno, liberare: del resto, come pratica, essa risponde a funzionalità
fisiologiche; rimane però non metabolizzabile, non smaltibile,
si accumula in concrezioni dissimulate nello stoccaggio del libro ma
alla prima occhiata pronte e fermentare in una schiuma impalpabile e
permeante. Se la circonferenza della Terra è 2r
= 2 6.378 km = 40.076
km, quella del mondo [posto lo schiumaggio (comprendente tutte le iperboli
del comunicare, reti, quanti d'informazione e neutrini di compressione)
- ] è - 2.
Se dunque il mondo è così irragiungibilmente e apparentemente
vasto, ogni nostra pratica, che non può esser altro, per emergenza
vitale, che una pratica di galleggiamento, è un andare allo sfinimento
a galla sulla schiuma mediale (meno materia aliena di blob, meno materia,
più elemento indefinibile ma fondamentale: un flogisto contattabile),
è un abbandono dei limiti in vista della proliferazione della
comunicabilità. L'intimità del nostro limitarci a noi
stessi appare così come un delimitarci - con il prefisso in accezione
anche privativa - delimitanza la nostra ultima forma di egoismo una
presenza asciugata, dopo il galleggiamento, come un papiro senza né
capo né coda, estesa nel risultato di 2,
ratrappita nella corsa dell'occhio fra le righe.
L'ipostasi del comunicare è un'iconostasi che a sua volta è
un'estasi: ognuno, nella propria delimitanza comunicativa è nell'estasi
dell'improprietà che gli si appropria. Che cos'è la comunicazione
se non il far propria una improprietà? Cos'è il video
se non un'iconostasi? Non vi è già nello schermirsi dello
schermo un fenomeno di ritualità? E non è nello schermo,
questa fenomenologia, perché prima è sempre stata nella
scrittura e nel linguaggio?
Nel linguaggio ogni parte organica - lettera, parola, sintagma, segno
- nella necessità logica di un legame (la radice
da cui vuol dire
raccolgo, raduno, tengo nella stretta di un assieme, lego prima che
leggo) ha in sé una spinta oltre sé che, anziché
interna, come mi è venuto di scrivere seguendo la stessa consuetudine
quiescente del linguaggio riferendomi appunto a un "in sé",
sembra invece sovrastante, mandata e irrefutabile come un vento "animale
del linguaggio". Ma questo "oltre" è già
destinato, non riserva per noi alcuna disperdente novità, solo
ci attende, anzi, già sembra averci avuti. Immagina solo un valico
lungo un tragitto da contrabbandieri, irrilevato dalle mappe, non segnato,
tra in sé e oltre sé, un orlo senza connotazioni spaziali
che sembra solo un'eventualità temporale ma che quando viene
il suo momento si spazializza disperdendo la cognizione del tempo; l'orlo
da cui spazio e tempo iniziano la propria divergenza, l'orlo della mistica,
dove ci si sente esaurire da quel che non ha mai avuto inizio quando
si principia come "già" del già sempre esaurito.
Non vi è più conciliazione in seguito alla divergenza
e a noi rimane inconciliata ogni parola.
È sempre stato mistico il rilevarsi della nostra inconciliabilità
con il linguaggio ma ora, all'universo
informatico, è più
mistica l'invisibilità sofficemente inaccessibile del codice
di compatibilità hardware, di accesso al software, dell'antifurto
auto.
Il vettore segna la
tendenza a 2
che fa posto al nostro mondo, del quale sto scrivendo un Atlante in
versi. Seguirà la chiosa che mi chiedi*.
Da Oberblitz un abbraccio forte.
*A Juan de la Cruz [ora in John Holstein, God is not love, nananana
CD-ROM (Too Loose#2)].
Caro
Giampaolo,
che piacere ricevere ancora posta postale e poter rispondere con una
lettera letterale: e confidare in tutta una procedurale sequela di gesti
carnosi e ossosi di imbuco e ritiro, e carico e smisto, e colloco e
insacco, e tolgo e di nuovo smisto e nuovamente imbuco e apro; che dispendiosa
diluizione, quasi gorgogliante, dell'istantaneità tecnomediale:
e che interludio di pensiero, che stagionatura, incantinamento e rinnovato
incantamento per le parole, e le cose loro e nostre.
È il piacere dell'indomabile consueto: quella mansuetudine che
ci fa trascuratamente ben volere le cose abituali che così meglio
si celano, più discretamente a noi si sottraggono sviandoci per
questa loro familiarità che spesso, subito discosta ma mentita,
nasconde una terribilità anche ancestrale, mostruosa, ma per
lo più misteriosamente naturale. Sarebbe troppo facile additare
la scrittura come esempio di questa perversità condominiale;
eppure di parola in parola, come di soglia in soglia, per usci origliati
da spioncini che ci danno una microbica specchiatura, dalla quale altri
ci vede intonsi e aerei come tondi di Tiepolo, trepidi e grondati, per
scalinate babeliche e pianerottoli d'Erebo, è lì che in
convissuta deflorescenza ci interniamo, ci ininoltriamo; anche Mattino
di Turbinio si affaccia e stende panni da un condominio piranesiano,
escheriano.
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